Il fegato è un organo centrale per il nostro equilibrio: regola il metabolismo, filtra le sostanze tossiche, produce proteine vitali. Quando si ammala, i sintomi possono essere silenziosi, ma le conseguenze importanti. Negli ultimi anni, diversi studi hanno iniziato a studiare il possibile ruolo terapeutico della cannabis nella gestione di alcune patologie epatiche e dei sintomi correlati. Parliamo di un ambito ancora agli inizi, dove servono prudenza e supervisione specialistica, ma che apre scenari di ricerca promettenti.
Il nostro corpo produce naturalmente molecole simili ai cannabinoidi che agiscono su recettori distribuiti in molti organi, compreso il fegato. Questo sistema, detto endocannabinoide, è coinvolto nella risposta infiammatoria, nella fibrosi e nella regolazione del metabolismo. La cannabis terapeutica contiene fitocannabinoidi come THC (tetraidrocannabinolo) e CBD (cannabidiolo), in grado di modulare questi meccanismi. Da qui l’interesse della ricerca nel valutarne l’impiego in alcune condizioni epatiche. Vediamone alcune.
Prurito colestatico refrattario, il primo ambito clinico
Il prurito colestatico è uno dei sintomi più invalidanti nelle malattie colestatiche croniche, come la colangite biliare primitiva (PBC) o la colangite sclerosante primitiva (PSC). Quando i trattamenti convenzionali (colestiramina, rifampicina, antagonisti oppioidi, sertralina) non funzionano, le opzioni diventano molto limitate.
In questo contesto, una piccola serie clinica (Neff GW et al., American Journal of Gastroenterology, 2002) ha valutato l’uso terapeutico di dronabinol, una formulazione farmaceutica di THC. Nei tre pazienti arruolati, il farmaco ha ridotto significativamente il prurito e migliorato il sonno; uno di loro ha sviluppato atassia, risolta con la riduzione della dose. Si tratta di un dato preliminare, ma rappresenta ad oggi la prima evidenza clinica documentata dell’uso di cannabinoidi in una malattia epatica.
Steatosi e altre epatopatie: prove ancora assenti
La steatosi epatica non alcolica, le epatiti croniche e la cirrosi sono condizioni molto diffuse, ma ad oggi nessun cannabinoide ha dimostrato efficacia clinica nel trattarle o rallentarne la progressione.
Alcuni studi pilota (Jadoon KA et al., Diabetes Care, 2016) su THCV e CBD hanno osservato miglioramenti del profilo metabolico in persone con diabete di tipo 2, ma senza valutare direttamente la salute del fegato (nessuna biopsia o imaging epatico). Sono quindi risultati indiretti e non sufficienti per giustificarne l’uso clinico nelle epatopatie.
Tumore del fegato, studi clinici in corso
Un altro ambito in esplorazione è il carcinoma epatocellulare (HCC), il tumore più frequente del fegato. È in corso uno studio clinico di fase 2a che valuta l’impiego di olio di cannabis con THC 10% e CBD 5% in pazienti con HCC avanzato non trattabile, per verificarne un potenziale effetto antitumorale. Al momento in cui scriviamo i risultati non sono ancora disponibili.
Sicurezza: il CBD richiede monitoraggio epatico
La sicurezza è il nodo centrale. Il CBD di grado farmaceutico, oggi approvato per alcune forme di epilessia, ha dimostrato in studi clinici di poter causare aumenti dose-dipendenti di ALT e AST (enzimi epatici), soprattutto in associazione con valproato.
Per questo motivo, le linee guida raccomandano monitoraggi periodici della funzionalità epatica (prima della somministrazione e poi a 1, 3 e 6 mesi dall’inizio della terapia) e particolare cautela nei pazienti con insufficienza epatica moderata o grave.
Il THC, invece, può dare sedazione e disturbi neurologici (come nel caso di atassia visto nello studio sul prurito colestatico) e va usato con attenzione in chi presenta encefalopatia epatica.
Cosa significa in pratica
Oggi l’unico ambito in cui i cannabinoidi hanno mostrato segnali clinici terapeutici reali è il prurito colestatico refrattario, e sempre in casi selezionati e sotto controllo specialistico.
L’uso nella steatosi, nelle epatiti o nella cirrosinon è ancora supportato da prove cliniche.In alcune aree, come per il tumore al fegato, sono in corso studi clinici ma non ci sono ancora risultati disponibili.
Ogni eventuale impiego va valutato caso per caso da un epatologo, con monitoraggio della funzione epatica e attenzione alle interazioni farmacologiche.

